Storico colloquio tra il capo dello Stato americano e l'omologo cinese, dopo la lettera scambiatasi ieri e dopo i contatti che il tycoon aveva avuto con la presidente di Taiwan e che avevano preoccupato Pechino. Il tutto mentre si è rischiato uno scontro tra due aerei militari cinesi e americano, al largo delle isole Sarborough, tra la Cina e le Filippine
dal nostro corrispondente ANGELO AQUARO
PECHINO - Trecentocinquanta metri alla fine del mondo? Questa volta non sono soltanto parole: Usa e Cina hanno rischiato di scontrarsi davvero militarmente nel mare delle isole contese che tiene il mondo con il fiato sospeso. Due aerei militari, uno cinese, l'altro americano, si sono sfiorati in volo, una distanza di appena 350 metri.
Ma la notizia che arriva da questo spicchio di mare è subito scavalcata dall'annuncio della Casa Bianca: non solo Donald Trump e Xi Jinping si sono finalmente parlati ma il presidente americano ha rassicurato quello di Pechino che gli Usa terranno fede alla politica di "Una sola Cina", che il Dragone aveva visto mettere in discussione dal colloquio di The Donald con la "presidente" di Taiwan, Tsai Ing-wen, che reclama l'indipendenza dall'isola che qui considerano invece parte del territorio.
COMMENTO E tanti saluti a Taiwan di FEDERICO RAMPINI
La notizia della telefonata è stata anticipata dal Financial Times e confermata successivamente dalla Casa Bianca. "Il presidente" dice un comunicato, ha aderito "alla richiesta del presidente Xi di tenere fede alla nostra politica di Una sola Cina", cioè l'accordo che risale al 1992 in cui sia Pechino che Taiwan riconoscono appunto che la Cina è una sola, lasciando diploaticamente a ciascuna parte di interpretare l'intesa come crede: un'escamotage che ha permesso tra i cugini di rafforzare i rapporti economici lasciando aperti quelli politici e territoriali.
Gli osservatori più attenti saranno incuriositi da quella strana sottolineatura del comunicato: "La nostra politica di una sola Cina", dicono gli americani, quasi a sottolineare la diversità di vedute con Pechino. Ma "La telefonata è stata estremamente cordiale" prosegue il comunicato della Casa Bianca, specificando anche che i due leader si sono estesi reciprocamente l'invito a "incontrarsi nei rispettivi paesi". Meglio di così, insomma, sembra non potesse andare, dopo che Pechino aveva salutato con ottimismo la letterina di auguri per il Capodanno arrivata finalmente dopo 11 giorni di ritardo.
La telefonata arriva per di più alla vigilia della visita di Shinzo Abe a Washington, la seconda in pochi mesi: come sarebbe potuta restare Pechino fuori dal gioco?
Naturalmente l'incidente, di questi tempi, è sempre dietro l'angolo. Come quello che ha fatto correre i brividi al di qua e al di là del Pacifico in queste ore. Un aereo di ricognizione americano P-3 Orion e un jet di pattuglia cinese KJ-300 si sono praticamente sfiorati mercoledì scorso in quel mare sempre più trafficato per l'intensificarsi delle esercitazioni. I due jet si sono ritrovati a 350 metri l'uno dall'altro al largo delle isole Scarborough, tra la Cina e le Filippine. L'annuncio lo danno gli americani alla Cnn e la notizia viene ovviamente subito rilanciata dai media di qui.
Il Mare della Cina Meridionale è insieme a Taiwan, la politica di "Una sola Cina" e il caso del dispiegamento del sistema antimissile Thaad in Corea del Sud uno dei punti di maggiore frizione tra Usa e Cina. Lì il Dragone ha persino costruito ex novo degli isolotti per affermare la propria supremazia territoriale: secondo quella teoria dei "9 trattini" che risale alla fine degli anni '40, unendo i quali allarga i suoi possedimenti del 90 per cento fino a quegli scogli non per niente ribattezzati "la Grande Muraglia di sabbia".
Una pretesa che si scontra ovviamente con quella delle altre nazioni che si affacciano in quell'aerea in cui si muovono beni per 5mila miliardi di dollari all'anno: un terzo di tutto il traffico mondiale. Dal Vietnam al Giappone passando per le Filippine, il fronte anti-cinese è però molto scomposto: e a garantire dalla fine della seconda guerra mondiale gli equilibri globali è ovviamente la flotta americana insediatasi laggiù.
Il nuovo Segretario americano, Rex Tillerson, era arrivato a dire che gli Usa sarebbero pronti perfino al blocco navale pur di impedire l'espansionismo cinese: affermazioni che non sono però state rilanciate durante la visita in Asia del capo del Pentagono, Jim Mattis, che anzi ha parlato di "dialogo" per la risoluzione dei problemi, attirandosi l'insolito apprezzamento di Pechino.
Gli incidenti di questo tipo non sono rarissimi: già due volte americani e cinesi si sarebbero sfiorati l'anno scorso in queste acque. Ma da quando The Donald è salito alla Casa Bianca la tensione è diventata così alta che ogni minima increspatura sullo status quo rischia di diventare un disastro.
L'episodio più grave resta quello passato alla storia come l'Incidente dell'isola di Hainan. Era il 1 aprile del 2001 quando un aereo della marina Usa e un jet cinese si scontrarono dopo che Pechino aveva intercettato gli americani. L'incidente causò la morte del pilota cinese e la "cattura" di 24 americani, costretti a un atterraggio d'emergenza sull'isola di Hainan e detenuti per 10 giorni.
Alla fine, dopo giorni di drammatica tensione, la faccenda fu risolta diplomaticamente, i due Grandi si salvarono reciprocamente la faccia e il povero George W. Bush, allora nei suoi primi giorni di governo, mandò una lettera di condoglianze alla vedova di Wang Wei, il pilota "morto da eroe". Anche Trump, oggi, è nei suoi primissimi giorni di governo: e l'ultima cosa che tutto il mondo si augura è vederlo alla prova in una situazione come questa. La telefonata tra Washington e Pechino allontana, finalmente, le preoccupazioni più fosche. Ma trecentocinquanta metri potranno mai bastare come distanza di sicurezza?
Il Dipartimento di Stato: “Divisioni fra le forze libiche non fanno che favorire l’Isis. Tutti i libici dovrebbero appoggiare il Governo di Unità Nazionale di Serraj”
di VINCENZO NIGRO
CON UNA MOSSA inedita, l'amministrazione americana ha deciso di bloccare la nomina dell'ex premier palestinese Salam Fayyad come nuovo inviato dell'Onu in Libia al posto del tedesco Martin Kobler. A poche ore dalla lettera che il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres aveva inviato ai paesi membri del Consiglio di Sicurezza per proporre la nomina, l'ambasciatrice Nikki Haley ha diffuso una dichiarazione durissima contro l'Autorità palestinese, ma indirettamente anche un colpo durissimo contro il segretario dell'Onu Guterres.
Washington "non sostiene il segnale che questa nomina darebbe alle Nazioni Unite", scrive la Haley, dove la Palestina non è membro a pieno titolo. "Per troppo tempo l'Onu è stato ingiustamente parziale in favore dell'Autorità Palestinese a discapito dei nostri alleati in Israele. Gli Stati Uniti non riconoscono attualmente uno Stato palestinese e non sostengono il segnale che questa nomina lancerebbe all'interno delle Nazioni Unite".
La mossa americana arriva dopo che da settimane il segretariato generale aveva iniziato a stilare una lista di candidati per la successione al tedesco Martin Kobler: il processo aveva portato Gueterres a sostenere il palestinese Fayyad come inviato in Libia. Seguendo la procedura del "silenzio-assenso", dopo aver ricevuto la lettera i 15 membri del Consiglio di sicurezza avevano tempo fino a venerdì sera per approvare o meno il candidato di Guterres. A questo punto l'interruzione del silenzio da parte degli Usa costringe il segretario generale a una nuova nomina.
La decisione ha effetti sotto diversi punti di vista: innanzitutto rivela che Guterres ha mancato di cautela nel decidere una nomina senza aver consultato riservatamente in anticipo la nuova amministrazione americana. Il "no" americano è quindi oggettivamente uno schiaffo anche al segretario dell'Onu. E' poi una conferma della determinazione con cui gli Usa di Donald Trump hanno intenzione di difendere all'Onu la causa di Israele: altre risoluzioni critiche delio Stato ebraico come quella approvata al Palazzo di Vetro negli ultimi giorni dell'amministrazione Obama (con l'astensione Usa) saranno impossibili.
A questo punto bisogna capire su chi punterà Gueterres per la Libia. Fayyad era un candidato di sicura esperienza: primo ministro palestinese fra il 2007 e il 2013, era stato anche ministro delle Finanze dell'Anp. Era considerato da tutti un "palestinese-americano" per essersi laureato in economia in Texas e per aver lavorato per anni alla Banca Mondiale e al Fondo monetario.
Ma nelle ultime ore l'amministrazione Usa ha lanciato un altro segnale molto importante per la Libia. Il Dipartimento di Stato ha diffuso un comunicato di sostegno totale al Governo di accordo nazionale del presidente Fayez Serraj, sostenendo che "gli Stati Uniti registrano con seria preoccupazione le notizie secondo cui alcuni veicoli militari di una organizzazione che si definisce "Libyan National Guard" sono entrati a Tripoli. Questa mossa ha il potenziale di destabilizzare ulteriormente la condizione della sicurezza in città". Il comunicato continua sostenendo che "la Libia dovrebbe lavorare per creare forza militari unificate sotto il controllo dei civili, in grado di offrire sicurezza a tutti i cittadini e di combattere i terroristi. Divisioni e mancanza di coordinamento fra le forze libiche andrà soltanto a vantaggio dell'Isis e degli altri gruppi terroristici". Il comunicato, che è la prima dichiarazione di pieno supporto al governo Serraj, continua sostenendo che "noi incoraggiamo tutti i libici a sostenere il processo di riconciliazione politica e il Governo di Accordo Nazionale". Il tema del potere militare sotto il potere civile, il punto dell'unità della Libia e del coordinamento delle forze militari sotto il Governo di accordo nazionale sono gli obiettivi strategici di Serraj, che nelle ultime ore aveva visto la nuova minaccia di questa "Guardia Nazionale Libica" che era stata creata da alcuni gruppi militari su cui aveva messo il cappello politico l'ex premier Khalifa Ghwell.
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13 FEBBRAIO 2017:LIFTING PARRICIDA DI LA LE PEN FALLITO:
A-NOTA 1:SU LA REPUBBLICA:
Le Pen: no a ebrei francesi con doppia cittadinanza. "Gli extra-europei dovranno scegliere"
Le dichiarazioni della leader del Front National alla trasmissione 'Emission politique' ricordano le affermazioni del padre Jean-Marie: "Se gli israeliani non optano per la nostra nazionalità, non vuol dire debbano andarsene per forza dal Paese". Cicchitto: "Razzista e antisemita"
PARIGI - "È agli israeliani che chiedo di scegliere. Questo non significa che, se non optano per la nazionalità francese, debbano andarsene dalla Francia. La Francia ha assolutamente la possibilità di accogliere sul suo territorio, incluso per tanto tempo, gente straniera che conserva la propria cittadinanza, se rispetta le leggi e i valori francesi. Raramente abbiamo avuto problemi con Israele su questo tema": Marine Le Pen è contro la doppia cittadinanza per i cittadini extra-europei e, in caso di vittoria alle presidenziali, anche gli ebrei francesi saranno chiamati a decidere.
Le dichiarazioni della leader del Front National alla trasmissione 'Emission politique' di France 2 continuano a far discutere e ricordano le affermazioni antisemite del padre Jean-Marie, per lungo tempo padrone del Front National e da cui la figlia ha preso le distanze per dare un'immagine diversa del suo partito. Le Pen ha anche ricordato che "Israele non è un paese europeo".
La legge sulla scelta della cittadinanza non verrebbe applicata ai nativi della Russia perché "fa parte dell'Europa delle nazioni" mentre lo sarebbe per i cittadini con doppia nazionalità statunitense, i quali, come gli altri extra-europei, sarebbero obbligati a scegliere.
-VIDEO NON RIPORTATO:Francia, spinte e schiaffi: le guardie del corpo di Le Pen aggrediscono un giornalista
In Francia vivono 500 mila ebrei, è la comunità europea più numerosa. Con l'aumento degli attentati contro cittadini e simboli ebraici, il crescente antisemitismo e le stragi dello Stato islamico, negli ultimi anni circa cinquemila ebrei ogni dodici mesi hanno deciso di lasciare il Paese ed emigrare in Israele. Dopo il massacro al supermercato kosher di porte de Vincennes, a gennaio 2015, due giorni dopo l'attacco alla redazione del settimanale Charlie Hebdo, fu lo stesso premier israeliano Benjamin Netanyahu a invitare gli ebrei a tornare a casa sostenendo che "Il vostro avvenire è in Israele, tornate nella vostra patria". L'affermazione aveva scatenato una polemica con Manuel Valls allora Primo Ministro, il quale aveva replicato: "La Francia, senza gli ebrei francesi, non è più la Francia".
Marine Le Pen ora indica una via diversa. Sulla questione della doppia nazionalità ha cercato di appoggiarsi sull'esempio della Germania dichiarando "Credo sia così in Germania". I media francesi non hanno mancato di sottolineare che invece la legge è cambiata dal giugno 2014. Poi ha invitato gli ebrei a non indossare in pubblico la kippah, perché "potrebbe essere pericoloso", ricordando che per "sconfiggere l'estremismo islamico" ci vuole "uno sforzo congiunto" che richiede "sacrifici da parte di tutti".
Sulla questione dei segni religiosi Le Pen è stata chiara, affermando che vorrebbe proibirli negli spazi pubblici: "La legge è la legge e se rafforzo quella del 2004 tutti dovranno rispettarla". Al momento vieta il velo islamico e altri segni distintivi di appartenenza religiosa nelle scuole pubbliche. Intanto un risultato la presidente del partito di estrema destra l'ha ottenuto: la sua partecipazione a 'Emission politique' ha fatto battere il record di audience della trasmissione con 3,5 milioni di francesi davanti alla tv, cancellando i precedenti con François Fillon e Alain Juppé ospiti.
-VIDEO NON RIPORTATO:Il Front National alla conquista del potere: su la Repubblica l'inchiesta in cinque puntate
Reazioni in Italia - "Gratta la populista euroscettica ed esce fuori la razzista antisemita: la Le Pen ha gettato la maschera e si è pronunciata contro i due passaporti che costituiscono da lungo tempo una caratteristica degli ebrei francesi", afferma il Presidente della Commissione Esteri della Camera, Fabrizio Cicchitto (Ncd). "Sono turbata dai proclami di Marine Le Pen sugli ebrei francesi. Proclami che purtroppo sono in linea con le origini antisemite del movimento fondato dal padre - ha commentato la senatrice Manuela Repetti (gruppo misto) - .E' sorprendente che in Italia questa notizia non abbia avuto il rilievo che invece merita né dai media né dalla classe politica tutta, che avrebbe dovuto alzare un coro unanime di presa di distanza".
B-NOTA 2:SU LE MONDE:
lemonde.fr
La candidate du Front national était l’invitée de France 2, jeudi soir. Elle s’est, à plusieurs reprises, appuyée sur des arguments erronés ou exagérés.
Marine Le Pen était l’invitée de « L’Emission politique », diffusée sur France 2, jeudi 9 février. La candidate du Front national (FN) a défendu son projet, présenté le 4 février. Elle s’est, à plusieurs reprises, appuyée sur des arguments erronés ou exagérés.
Le « décret anti-immigration » d’Obama
Interrogée sur le décret anti-immigration de Donald Trump aux Etats-Unis, Marine Le Pen a repris une désinformation de Kellyanne Conway, proche conseillère du président américain : elle a assuré que Barack Obama avait lui aussi, en son temps, interdit de territoire les ressortissants d’un pays ciblé (l’Irak).
C’est faux
Comme l’explique la revue américaine Foreign Policy, l’administration Obama avait effectivement ordonné un réexamen de la situation des 58 000 Irakiens installés aux Etats-Unis après l’arrestation de deux de leurs compatriotes et elle avait accru les contrôles des demandeurs de visa d’Irak. Mais elle n’a jamais empêché à l’ensemble des ressortissants de ce pays d’entrer aux Etats-Unis.
La taxe sur les travailleurs étrangers
Marine Le Pen a défendu la faisabilité de sa « taxe sur les travailleurs étrangers », en expliquant qu’elle existait déjà, et qu’il suffirait de l’étendre aux ressortissants issus de l’Union européenne, qui ne sont pas concernés aujourd’hui.
Or, le projet de la candidate FN est très différent de ce qui existe aujourd’hui, comme l’expliquent nos confrères de Libération :
- Aujourd’hui : une entreprise qui emploie un travailleur étranger ne doit payer cette taxe que « lors de la première entrée en France de cette personne ou lors de sa première admission au séjour en qualité de salarié ».
- Ce que veut Marine Le Pen : que l’employeur s’acquitte de cette taxe sur chaque nouveau contrat avec un travailleur étranger, donc à chaque fois que ceux-ci changent de travail.
La taxe actuelle est relativement marginale : elle a concerné 36 000 personnes en 2015. Le prélèvement version FN pourrait potentiellement toucher le 1,7 million d’étrangers actifs présents en France dès qu’ils voudront changer d’emploi.
Intox sur les étrangers
La candidate du FN dit vouloir arrêter « la naturalisation automatique par le mariage ».
Pourquoi c’est faux
Cette naturalisation est loin d’être automatique. Les candidats doivent remplir un certain nombre de conditions (au moins quatre ans de mariage, un séjour régulier en France, une connaissance de la langue française, etc.).
Marine Le Pen a également ciblé les étrangers condamnés : « On accorde la nationalité beaucoup trop facilement ces dernières années. Y compris à ceux qui ont des casiers judiciaires. »
Pourquoi c’est trompeur
En France, la demande de naturalisation d’un étranger ayant été condamné pour des crimes ou des délits constituant une atteinte aux intérêts fondamentaux de la nation ou pour un acte de terrorisme ou à une peine égale ou supérieure à six mois de prison sans sursis est irrecevable.
De plus, une enquête préfectorale de « bonnes vies et mœurs » vient compléter ces premières conditions, pendant laquelle les condamnations pénales – en France ou à l’étranger – sont vérifiées.
Ces conditions ne sont toutefois pas applicables à un condamné ayant bénéficié d’une réhabilitation de plein droit ou à une personne dont la condamnation a été exclue du bulletin numéro 2 – excluant les peines pour des faits mineurs – du casier judiciaire. La présence d’une mention au casier judiciaire n’exclut donc pas systématiquement l’approbation de la naturalisation.
Les 500 000 migrants « perdus » par l’Allemagne
La candidate du FN s’est alarmée que l’Allemagne ait « perdu » 500 000 migrants qui se seraient dispersés dans le reste de l’Union européenne (UE) à cause de l’espace Schengen.
Pourquoi c’est trompeur
Elle semble faire référence à un chiffre publié en avril 2016 par le tabloïd allemand Bild. Le ministère allemand de l’intérieur affirmait que 500 000 réfugiés vivaient dans le pays sans s’être enregistrés comme demandeurs d’asile – notamment par peur d’être expulsés en cas de rejet de leur demande. Rien n’indique toutefois que ces personnes se sont « dispersées » dans le reste de l’Europe.
Et aussi…
Binationaux. Marine Le Pen a défendu son projet d’interdire les doubles nationalités hors UE en disant : « C’est le cas en Allemagne, je crois. » Raté : la binationalité est autorisée outre-Rhin depuis 2000 et son obtention a été facilitée en 2014 (y compris pour les nationalités extracommunautaires).
Chômage. La France ne compte pas 7 millions de chômeurs, comme elle l’affirme. Au maximum 6,5 millions… mais en additionnant toutes les catégories de Pôle emploi (y compris les chômeurs qui ont une activité ou sont en formation). La méthode internationale pour compter le chômage (celle du Bureau international du travail) aboutit à 2,8 millions de chômeurs.
Dérapages. Interpellée sur le tweet polémique de Jérôme Cochet – un collaborateur de son directeur de campagne David Rachline –, qu’elle a condamné, elle a tenté d’en faire un cas isolé. Oubliant que les dérapages racistes, antisémites et homophobes des responsables FN sont nombreux.
Scolarité publique-privée. Face à la ministre de l’éducation nationale, Najat Vallaud-Belkacem, Marine Le Pen a affirmé que tous ses enfants avaient, comme elle, effectué leur scolarité dans des établissements publics. Pourtant, en 2014, Le Courrier de l’Ouest relevait que sa fille de 15 ans était en fait scolarisée dans un établissement catholique à Nyoiseau (Maine-et-Loire).
lastampa.it
Caroselli armati, afflusso di milizie, insofferenza per le Nazioni Unite e malcontento popolare. A Tripoli c’è un braciere che brucia sotto le ceneri della rivoluzione pronto a infiammare anime e soldati, a una manciata di giorni dall’anniversario del 17 febbraio 2011, l’inizio della primavera libica. Percezioni e fatti, come la «calata» in blocco nella capitale della neonata Guardia nazionale libica, le prove muscolari della polizia Rada, gli scontri tra brigate, e l’incertezza sul futuro. Timori che il dipartimento di Stato americano fa propri in un comunicato nel quale esprime «seria preoccupazione» per il confluire nella capitale libica di mezzi della «cosiddetta Gnl». «Un dispiegamento che potrebbe destabilizzare ulteriormente la già fragile sicurezza di Tripoli», avverte Foggy Bottom rinnovando l’invito «a sostenere il processo di riconciliazione politica sotto il Gna» e «impegnandosi a vigilare sulla transizione verso un nuovo governo con elezioni pacifiche» nell’ambito degli accordi di Skhirat.
Il clima di tensione è tuttavia figlio degli accordi del dicembre 2015 patrocinati dall’Onu che hanno portato alla nomina di Fayez al-Sarraj a capo del governo di accordo nazionale. Gna alle prese con un difficile percorso di stabilizzazione interna e in un improbabile dialogo con la Cirenaica, sempre più feudo autonomo di Khalifa Haftar. «Sarraj rischia di avere i giorni contati», dice Othman Bensasi, già consigliere politico dell’ex premier Ali Zeidan. «Quando è arrivato ha promesso stabilità in 90 giorni, è passato oltre un anno e non è successo nulla, non può spendere i soldi del budget perché non ha ministri strategici, la gente è stanca».
La debolezza del presidente nasce dal fatto che controlla un ristretto gruppo politico e poche forze sul campo. «In Libia se si vuole fare qualcosa bisogna controllare i militari».
In questo momento ci sono 38 formazioni armate a Tripoli, tra le più forti tre sono con Sarraj, tre sostengono Khalifa Ghwell, ex presidente del Consiglio e rivale del premier. Queste a loro volta controllano altri gruppi sparsi sul territorio a macchia di leopardo. Ci sono poi gli islamisti dall’una o dall’altra parte, come quelli del Mufti Sheikh Sadeq Al-Gharyani con Ghwell, e le brigate Kara vicine a Sarraj. La matrice comune rende pertanto poroso il confine degli schieramenti, agevolando un cambio di sponda per credo o convenienza. I gruppi hanno poi collegamenti con formazioni di altre città, il che pone un rischio di amplificazione dello scontro. Questa fluidità paradossalmente ha permesso di evitare un altro conflitto, ma è un equilibrio garantito dalla presenza di tanti e tali armamenti in circolazione, pertanto labile. Anche l’ipotesi di un dialogo Sarraj-Haftar caldeggiato da Martin Kobler, è ritenuta iniqua perché si tratta di creature differenti: politico il primo, militare il secondo.
L’Onu ha fallito nell’impostazione, sono convinti in molti, in primis nell’aver paracadutato Sarraj a Tripoli senza averlo messo nelle condizioni di acquisire contenuti concreti e conquistare legittimità interna. «Non è la prima volta che per la Libia si punta su personaggi orfani di consenso e svuotati di potere - chiosa Bensasi ex membro del Consiglio di transizione nazionale e oggi dirigente del dicastero del Lavoro -. È stato un errore affidarsi a personaggi come Kobler e Leon». Sarraj è ora impegnato in una corsa contro il tempo per raccogliere all’estero quella forza necessaria ad imporsi sul piano interno, come dimostrano gli accordi per i migranti siglati in Italia ed Europa, e la missione diplomatico-commerciale in Turchia (la cui lunga mano spesso si cela dietro certi movimenti di milizie interni alla Libia e non solo). Una corsa per evitare di dover riprendere la via del mare da dove era giunto un anno fa approdando alla base di Abu Sitta.
Un’ipotesi caldeggiata da un numero crescente di persone a Tripoli, alcune delle quali auspicano un dialogo militare tra Ghwell, che sta recuperando il controllo di forze in campo, e Haftar. E dal quale risulti tagliata fuori l’Onu nei cui confronti cresce l’insofferenza dopo la nomina di Salam Fayyad. L’ostilità nei confronti dei palestinesi è nota in Libia, a causa dei facili asili che Gheddafi concedeva loro - per infastidire potenze arabe rivali e agevolare la propaganda anti-israeliana - creando colonie mal sopportate. La Libia inoltre si sente distante dal Medio Oriente, sottolinea Bensasi: «Che aiuto può dare chi per 70 anni non è riuscito a risolvere i suoi problemi?».
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